"Leonardo ha scritto che un pittore dovrebbe iniziare ogni tela con una stesura di nero, perché in natura le cose sono tutte nere tranne quando sono esposte alla luce. La maggior parte dei pittori fa l’opposto, iniziano con una stesura di bianco e per ultimo aggiungono le ombre. Ma Paul, che conosce Leonardo come se avessero giocato assieme da ragazzi, capisce l’importanza di iniziare con le ombre. Le sole cose che gli altri sanno di noi sono quelle che noi stessi permettiamo di vedere." (Tom) Mi sembra impossibile ma sono riuscito a decrementare la lunga lista di libri che mi incuriosiscono e che non riesco, per mancanza di tempo, a leggere. Libri universitari a parte, compro mediamente 3 o 4 libri l’anno e ne leggo al massimo due. Il libro di cui vi parlo oggi è “Il codice del quattro” di Caldwell e Thomason ed è un libro che aveva, quando l’ho comprato 3 anni fa, tutte le caratteristiche per attirare la mia attenzione: Thriller erudito a sfondo storico che parla di enigmi che ruotano intorno ad altri libri. All’Università di Princeton mancano pochi giorni alla laurea e gli studenti lavorano alacremente per ultimare le proprie tesi. Tra di loro ci sono Paul Sullivan e Tom Harris che sono ad un passo dal risolvere l’enigma di un testo rinascimentale: l’Hypneretomachia Poliphili. Per Paul è diventata una specie di ossessione mentre per Tom si tratta di una eredità culturale visto che suo padre è stato uno dei massimi studiosi di questa opera. Mi fermo qui perché voglio evitare di svelarvi la trama peraltro ben costruita e che scorre in maniera avvincente tra indovinelli, citazioni erudite, colpi di scena e … Una cosa che sicuramente colpisce sono i luoghi descritti in queste pagine. Infatti, oltre alla già citata a Princeton, si parla di Venezia, Genova, Roma e Firenze. Cosa hanno in comune queste 4 città? Sono in Italia e NON è un caso. Non è la prima volta che mi capita di notare, si pensi anche in campo cinematografico, come gli Americani (ma non solo loro) siano attratti dalla bellezza e dalla storia del nostro Bel Paese del quale oserei dire, non possono far a meno di attingere quando vogliono affondare le mani nel passato. P.S. Il motivo per cui ho scelto il Mosè di Michelangelo come immagine per questo post sta nel fatto che il primo indovinello del libro recita: "Chi ha cornificato Mosè?" Se volete la risposta andate qui sotto su leggi tutto. Questa caratteristica iconologica deriva dal passo di Es34,29, che nel testo originale ebraico (testo masoretico) riferisce che, dopo aver ricevuto da Dio le tavole dei dieci comandamenti, Mosè ignorava che la sua pelle era 'raggiante' (verbo ebraico qrn). La radice trilittera indica generalmente l'idea di radialità, che può così indicare una 'irradiazione' luminosa. L'interpretazione data dagli attuali esegeti è che l'autore volesse indicare appunto che il volto di Mosè era luminoso, irradiante luce. Le stesse radici però si ritrovano nel sostantivo 'corno', che parte radialmente dalla testa degli animali. Quando Girolamo tradusse il testo ebraico in latino nella vulgata, la versione della Bibbia ufficiale per secoli nella chiesa latina, adottò questa lezione, traducendo "ignorabat quod cornuta esset facies sua", cioè "ignorava che la sua faccia fosse cornuta". Ciò è stato per secoli fonte d'ispirazione per diversi artisti, fra cui il soprannominato Michelangelo Buonarroti. Con la diffusione dello studio delle lingue originali della Bibbia ha preso progressivamente piede la consapevolezza che la traduzione di Girolamo era sbagliata. Molti pittori però hanno faticato ad allontanarsi dall'iconografia tradizionale di Mosè 'cornuto', e si arrivò al compromesso di raffigurare il volto di Mosè con due fasci di luce, tipo corna, che partivano dalla sommità del capo. |